L’autismo è definito clinicamente in base a una serie di caratteristiche.
Queste caratteristiche nei manuali clinici e nella terminologia medica vengono denominate sintomi, e sono definite principalmente come deficit o eccessi: “Deficit persistente della comunicazione sociale e nell’interazione sociale” oppure “Interessi molto limitati, fissi che sono anomali per intensità o profondità”[1]. Ciò che molte persone autistiche vorrebbero far comprendere al mondo, è che in moltissimi casi si tratta di differenze, e che se una cosa è diversa dalla media non necessariamente dev’essere giudicata inferiore, difettosa.
L’empatia è una di quelle caratteristiche di cui, a causa di un malinteso anche abbastanza ovvio, noi persone autistiche siamo state definite carenti anzi, deficitarie, nella narrazione che le persone non autistiche (o neurotipiche) hanno costruito su di noi.
Quasi quattro decadi fa, i ricercatori Simon Baron-Cohen e Uta Frith ipotizzarono che noi persone autistiche avessimo un deficit nella Teoria della Mente[2] (ToM, o Theory of Mind, in inglese), ossia che non fossimo capaci di attribuire stati mentali a noi stesse e agli altri.
Questa idea, che ha viziato la narrazione sull’autismo stigmatizzando ulteriormente la categoria, è stata successivamente ritrattata dallo stesso Baron-Cohen, ma soprattutto è stata sconfessata da diversi ricercatori, tra cui Morton Ann Gernsbacher[3] oppure Damian Milton. In particolare Milton, ricercatore autistico, col suo Problema della Doppia Empatia[4] ci spiega come le persone autistiche non abbiano un deficit nella ToM, non siano carenti di empatia, ma semplicemente utilizzino altri parametri e codici per analizzare il comportamento di chi hanno di fronte, inferirne gli stati mentali e comportarsi di conseguenza.
In pratica, tra autistici e non autistici parliamo due lingue differenti, e finché non troveremo un linguaggio comune avremo sempre l’impressione di non capirci a vicenda.
Immaginate un’italiana e un indiano che cercano di comunicare ciascunǝ nella sua lingua e senza conoscere una parola di quella altrui. Ovviamente non si capirebbero, ma dal momento che si trovano in Italia e la stragrande maggioranza della popolazione parla italiano, allora l’indiano sarà in “minoranza” e verrà considerato quello strano, quello che non capisce.
È quello che accade tra persone autistiche e neurotipiche: un cortocircuito nell’interpretazione del linguaggio dell’altro, dei gesti, dei segnali non verbali e delle metafore. Una mancata comprensione di quelle che per ciascun gruppo sono le naturali reazioni a determinate situazioni o emozioni, reazioni dettate in parte anche da differenze nell’organizzazione del sistema nervoso e quindi radicate nell’essenza stessa della persona, non necessariamente culturali.
Se vedete un amico piangere, probabilmente una reazione considerata normale è che lo abbracciate per consolarlo. Ma cosa accadrà se per voi il contatto fisico è estremamente difficile per una serie di differenze di tipo sensoriale? E come reagirete se in quel momento pensaste che, per far smettere di piangere il vostro amico, dovete prima di tutto aiutarlo a risolvere la causa del suo dolore? Probabilmente non lo abbraccerete e, altrettanto probabilmente, comincerete a porre domande mirate a risolvere il problema in modo razionale.
Questa reazione verrà interpretata come non empatica perché, nella narrazione neurotipica, l’empatia verso chi mostra sofferenza si manifesta prima di tutto con atteggiamenti consolatori. Eppure, dietro alla vostra apparente freddezza si nasconde il desiderio di far smettere il pianto dell’amico risolvendone la causa, e la distanza fisica potrebbe essere data da una differente modalità sensoriale. Basterebbe essere coscienti dell’esistenza di modi differenti di interagire senza presupporre che uno sia sbagliato solo perché meno diffuso.
Possiamo estendere il discorso a tutte le aree del funzionamento umano e parlare non solo di “doppia empatia”, ma di “doppio funzionamento”. Se ci pensiamo bene, il discorso continua a essere abbastanza ovvio: un sistema nervoso organizzato diversamente crea una diversa percezione degli stimoli esterni e di quelli interni all’organismo. Quello che tu percepisci come normale, per me potrebbe risultare insopportabile, oppure uno stimolo per me piacevole potrebbe per te risultare doloroso.
Andare gli uni verso le altre, non dare per scontato che il nostro modo di vedere il mondo sia l’unico possibile, e comprendere che differente non vuo dire difettoso è il punto di partenza per creare una società in cui ciascuna persona abbia la possibilità di esprimersi, di autodeterminarsi, di accedere a un lavoro o a un’istruzione di qualità, di essere sé stessa.
[Articolo scritto da Fabrizio Acanfora, persona autistica e responsabile della comunicazione e delle relazioni esterne di Specialisterne Italia]
NOTE:
[1] American Psychiatric Association. (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed.).
[2] Baron-Cohen, S., Leslie, A. M., & Frith, U. (1985). Does the autistic child have a “theory of mind” ? Cognition, 21(1), 37–46. doi: 10.1016/0010-0277(85)90022-8
[3] Gernsbacher, M. A., & Yergeau, M. (2019). Empirical Failures of the Claim That Autistic People Lack a Theory of Mind. Archives of scientific psychology, 7(1), 102–118. doi:10.1037/arc0000067
[4] Milton, D. E. M. (2012). On the ontological status of autism: the “double empathy problem.” Disability & Society, 27(6), 883–887. doi:10.1080/09687599.2012.710008