inclusione o convivenza?
In un saggio sull’inclusione lavorativa delle persone neurodivergenti intitolato La diversità è negli occhi di chi guarda, pubblicato gratuitamente sul mio blog a settembre 2020, ho espresso alcuni dubbi sul concetto di inclusione lanciando la proposta, successivamente ampliata nel libro In altre parole. Dizionario minimo di diversità, di cominciare a pensare all’inclusione non come a un gesto unidirezionale concesso dalla maggioranza – dalla normalità – alle minoranze, ma come a un processo basato sulla reciprocità che può essere espresso in modo più appropriato dall’idea di convivenza delle differenze.
Partendo dalla mia esperienza di persona autistica e omosessuale, e dalle difficoltà che determinate caratteristiche relative alle mie identità hanno messo sul mio cammino lavorativo, ho trovato il processo di inclusione piuttosto tendenzioso e poco efficace.
In primo luogo, la stessa definizione di inclusione racchiude uno squilibrio tra le parti coinvolte. Questo squilibrio sbilancia l’inclusione a favore di chi detiene il potere di includere mettendo l’altra parte – la persona o la minoranza che viene inclusa – in una condizione di passività. In varie occasioni ho sollevato la questione linguistica come punto di partenza. Includere vuol dire letteralmente “chiudere dentro”, e il vocabolario Treccani definisce l’inclusione come “L’atto, il fatto di includere, cioè di inserire, di comprendere in una serie, in un tutto”. In pratica, l’inclusione non si traduce in una reale uguaglianza delle parti, ma segue piuttosto il concetto matematico secondo cui la relazione di inclusione tra due insiemi è, sempre secondo Treccani, la “relazione in base alla quale uno dei due insiemi contiene l’altro come proprio sottoinsieme”.
Spostandoci dal piano puramente semantico alla pratica quotidiana nell’ambito lavorativo, le cose non cambiano molto. Nella maggior parte dei casi l’inclusione viene attuata da persone appartenenti alla cultura che potremmo considerare dominante, che si mettono in relazione con la diversità partendo da una visione di quest’ultima filtrata attraverso lo sguardo della normalità. Una parte della società quindi decide in che modo, a che condizioni e secondo quali dinamiche le persone non conformi ai canoni della normalità possono o meno essere accolte nel mondo del lavoro.
Quando dico che l’inclusione, così come viene attuata nella maggioranza dei casi, è tendenziosa, mi riferisco a questo squilibrio tutto sommato naturale che origina nello sguardo di chi si trova a decidere per qualcun altro. Il fatto che sia uno squilibrio naturale e comprensibile non significa che dobbiamo continuare a perpetrarlo, almeno se vogliamo creare una società in grado di generare una convivenza tra persone che esprimono caratteristiche estremamente diverse tra loro.
L’idea di ripensare l’inclusione in termini di convivenza nasce dalla necessità di azzerare questo squilibrio per redistribuire l’eccesso di potere, oggi concentrato nelle mani della maggioranza, tra tutte le parti di una comunità.
Ciascuna persona vede il mondo attraverso i propri occhi, lo sperimenta attraverso una sensorialità unica e lo elabora in modo assolutamente soggettivo anche in base al vissuto personale, all’educazione, allo status sociale, a quanto le proprie caratteristiche rientrino o si discostino dagli ideali canoni della normalità. Nell’idea di convivenza l’atto paternalistico di includere chi viene percepita come diversa dalla media (sotto qualsiasi aspetto), questo movimento verticale che scende dall’alto sotto forma di benevola concessione alla partecipazione sociale e lavorativa, si trasforma invece in un processo reciproco che parte dal mutuo rispetto e si sviluppa attraverso la comprensione delle caratteristiche dell’altrǝ. La convivenza è un processo attivo che richiede a ciascuna persona di fare un passo verso l’altra, che azzera la contrapposizione classica di noi verso loro, e mette al centro la persona con le sue peculiarità, con le caratteristiche uniche che la rendono diversa da qualunque altra.
Appare chiaro che una reale inclusione che garantisca la coabitazione della varietà infinita di caratteristiche umane espressa dal concetto di diversità, richiede una cultura della cooperazione in cui le persone siano disposte ad andare di pari passo sostenendosi vicendevolmente. Per raggiungere la convivenza delle differenze serve una cultura aziendale il cui valore principale sia il benessere collettivo e personale, la soddisfazione e la crescita di ciascuna persona ma sempre in relazione al tessuto sociale a cui appartiene, e che veda il miglioramento della produttività e della performance come conseguenze naturali di questo processo di scambio e sostegno reciproco.
[Estrattodel libro “Di pari passo, il lavoro oltre l’idea di inclusione”, di Fabrizio Acanfora, edito da Luiss University Press]